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Turcanu, Manca il sole ma mi sta bene lo stesso

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Irina Turcanu racconta in 'Manca il sole ma si sta bene lo stesso' l'adolescenza, il distacco e il legame con la madre

Se la narrativa sui migranti continua a produrre titoli di successo e vede in campo autori italiani affermati come Alessandra Carati, Antonio Manzini, Rosella Postorino, un posto a se stante lo occupano le opere di alcuni autori stranieri, per lo più sconosciuti al grande pubblico, che si segnalano per una scrittura originale, sofferta, maturata come riflessione personale sul crinale dell’adolescenza. E’ il caso, tra gli altri, di due scrittrici romene, Andreea Simionel che con Male a est è entrata inopinatamente al suo esordio nella classifica dei libri di qualità 2022, e del più recente Manca il sole ma si sta bene lo stesso (Marsilio) di Irina Turcanu. Racconti che non si limitano a esprimere una denuncia sociale, ma vanno piuttosto a indagare snodi esistenziali, idiosincrasie, conflitti irrisolti.

Quella della Turcanu è la storia di Ina, una ragazzina di un paesino nel nord della Romania, Gura Humorolui, dove tutti si conoscono e d’inverno si va di fretta perché fa un grande freddo. Quasi di nascosto Aurel e Cristina, i genitori di Ina, abbandonano il paese per cercare fortuna in Italia, lasciandola alle cure della nonna Geta. Qualche anno dopo anche Ina si trasferisce e inizia per lei una nuova vita, in senso letterale, perché tutto cambia: la lingua, le amicizie, le abitudini, la scuola. Pur non essendo autobiografia, il romanzo della Turcanu è interessante perché nel personaggio di Ina c’è molto di lei stessa, del suo passato, del paese, la Romania, che ha lasciato nella complessa transizione dal regime comunista di Ceausescu alla democrazia. Così la storia di Ina è anche un po’ la sua, lo sradicamento e il faticoso ricominciare, un percorso comune a tanti migranti e per questo paradigmatico.

Irina, come si entra in una nuova lingua? Andreea Simionel, che ha scritto un romanzo fortemente autobiografico proprio su questi temi, diceva che occorre morire e rinascere, come una falena. Per te come è stato?

Un amico scrittore brasiliano Julio Monteiro Martins mi disse una cosa che credo sia molto vera: quando vai a vivere in un nuovo paese devi accettare la morte, il suicidio del tuo io, che non ci sia più. Però, io aggiungo che serve poi uno sforzo analogo per farlo resuscitare, perché se hai ucciso quell’io che tu eri, vivi in una specie di limbo. Io avevo persino paura di andare in Romania, che venisse fuori la mia vita. Il segreto, credo, è rimettere tutto insieme, quello che eri prima e quello che sei oggi, ma non come qualcosa in sé di interrotto, piuttosto come un’aggiunta preziosa, che non costituisce più un peso. E’ fondamentale evitare la sindrome dell’immigrato, non sentirti mai appartenente a nessun posto, e trovare invece spazio per la tua nuova vita senza guardare indietro. Del resto è una situazione che viviamo un po’ tutti: ho amiche che si sono trasferite a 30 km di distanza e si sentono già sradicate. Il nostro destino è essere nomadi.

Che cosa ricordi della tua infanzia, quando c’era ancora Ceausescu? E poi cos’è cambiato?

E’ una cosa che a volte mi fa molto riflettere, perché non è così netto il passaggio tra il prima e il dopo di quel regime. Non c’è stato un taglio netto: quel comunismo che a noi è sembrato crollare su se stesso non era già più come lo conoscevamo e in qualche misura molte cose si si sono mantenute anche dopo. Nel 1989 avevo solo 5 anni, ma ricordo benissimo che cosa significava andare a scuola durante il regime. Nella piccola cittadina dove vivevo la scuola materna per me andava dal lunedì al venerdì, senza mai tornare a casa, un ciclo settimanale. Non credo che esista una cosa del genere in Italia. Tu dormivi, quindi, in quella struttura che era la scuola, perché per un certo periodo ero stata affidata a mia nonna, la quale lavorava anche lei, proprio come mia madre, e quindi era naturale portarmi in una scuola dell’infanzia dove mi veniva a prendere solo il venerdì.

Lo Stato che pensa tutto…

Sì, e con delle conseguenze. Pensa a cosa significa far crescere bambini la cui educazione affettiva, emotiva e familiare viene delegata a un’istituzione, senza una mamma che mi leggesse le favole la sera. Avevo tanti Gogan, la signora dell’asilo: io l’adoravo e piangevo quando lei non era di turno, perché mi ci ero affezionata come fosse mia nonna. E poi il regime aveva lasciato in eredità una quantità enorme di orfani. Quindi, perché ci meravigliamo che la società in Romania oggi sia così frammentata, che esistano gli orfani bianchi, famiglie con genitori divisi in paesi diversi, che siano così frequenti i divorzi? Forse la risposta proprio è in questo modo di concepire la famiglia. Tornando alla domanda, la mia vita si divideva tra l’asilo o la scuola e gli amici. Le vacanze non le facevo con i miei genitori anche quando avrebbero avuto la possibilità economica di farlo, andavamo una settimana al mare in colonia ed era tutto. Ho cominciato a visitare la Romania solo quando ero già adolescente, fino ad allora ero vissuta in quella piccola realtà in cui mi sembrava che tutto fosse idilliaco, possibile, a portata di mano.

E poi arrivi in Italia, in un piccolo paese dell’entroterra piacentino. Com’è stato questo periodo, l’approdo a un mondo diverso?

Il mio arrivo è coinciso con una fase bassa emigrazione dalla Romania: al liceo scientifico di Piacenza ero l’unica straniera in tutta la scuola e ho subito attirato curiosità nei miei confronti, così come attenzioni, aiuto. Per gli altri ero qualcosa di «esotico». Però i primi tempi sono stati difficili, volevo tornare in Romania, piangevo costantemente. A scuola mi pesava passare 5-6 ore a sentire parole che non capivo, senza senso per me. Quindi, all’inizio ho fatto molta fatica, ma a un certo punto c’è stato come uno switch e sono passata all’estremo opposto: leggevo il Devoto Oli la sera per imparare l’italiano alla perfezione.

Come nasce la passione per la scrittura?

Ho sempre scritto, fin da piccolissima, soprattutto poesie. Poi, però, il vero salto è stato quando ho iniziato la collaborazione con il quotidiano di Piacenza Libertà. Ero arrivata da poco in Italia e sul finire del 2002 mi presento alla redazione del giornale dicendo: “vorrei scrivere per voi, come corrispondente in montagna”. Loro mi dicono che va bene e mi chiedono di preparare un primo articolo sulle lumache. Mi ricordo tutt’ora quel trafiletto… Compravo il giornale per cercare di capire come si scrivono gli articoli, finché qualcuno in redazione si è messo pazientemente al mio fianco, spiegandomi come fare. Sono davvero grata a questi incontri fortuiti che, per un motivo o per l’altro, mi hanno dato un senso di appartenenza anche all’Italia. Pochi mesi dopo inizio a scrivere il mio primo romanzo in italiano, che ovviamente nessuno ha mai pubblicato, ma poi lo riprendo in mano, lo riscrivo e questa volta viene pubblicato da una piccola casa editrice torinese. Da qui inizia anche l’attività di traduttrice e di consulente editoriale della casa editrice italo-romena Rediviva di Milano, per la quale ho anche curato una raccolta di racconti. Manca il sole ma si sta bene lo stesso è il mio primo romanzo che raggiunge il grande pubblico.

Il libro tocca molti temi: l’adolescenza, l’inserimento in un nuovo paese, i rapporti familiari, ma, In particolare, mi sembra centrale quello di Ina con la madre …

E’ vero, penso che hai colto un aspetto essenziale: la mamma di Ina è il personaggio a cui sono più affezionata, e c’è una ragione. Quando sono arrivata in Italia mi sono scontrata con l’immagine della madre «santa». Avevo dei fidanzati che mi parlavano delle loro madri in modo che mi faceva paura: non potevano essere mai sfiorate, contraddette, criticate, anche quando ferivano i miei fidanzati o gli amici. Per me era molto difficile accettarlo, perché avevo vissuto nella mia infanzia l’esperienza dell’asilo settimanale, figuriamoci se vedevo la santità in mia madre, al contrario, la vedevo fin troppo umana… Con mia madre fino a una certa età ci siamo scontrate, ma poi abbiamo iniziato a capire che era normale in un rapporto tra donne adulte. Per me la madre rappresenta la figura centrale della famiglia, il pilastro, e quindi mi piaceva moltissimo poter indagare su questa figura e metterla in una posizione non di «santa», ma neppure da condannare, perché in fondo sacrifica se stessa per dare un futuro alla sua bambina, anche se a modo suo. Insomma, volevo scrivere di una famiglia con al centro una madre in mezzo alle turbolenze della storia.