Roma, 20 gen. (askanews) – Margelis Tinoco piange: le hanno appena cancellato l’appuntamento per la richiesta d’asilo negli Stati Uniti. “Vedete, dice mostrando il telefono, cosa mi hanno scritto”. Proprio mentre questa signora colombiana si disperava da Ciudad Juarez, al confine fra Messico e Texas, a Washington Donald Trump stava promettendo nel suo discorso di insediamento come presidente degli Stati Uniti, fra le altre cose, di cacciare “milioni e milioni di immigrati criminali” e di chiudere la frontiera a sud col Messico proclamando un’emergenza nazionale.
Trump ha messo fuori uso appunto l’app CBP One, che permetteva ai migranti al confine di avere un appuntamento per entrare legalmente negli Stati Uniti per chiedere asilo o per motivi di lavoro. A Tjuana, al confine ma ancora in territorio messicano, altre decine di persone aspettano notizie sui loro appuntamenti per il visto.
Arrivano dal Messico migliaia di persone proveniente da paesi in crisi: in primo luogo il Venezuela ma non solo. Per esempio all’interno dei confini colombiani ci sono già almeno undicimila sfollati, in fuga dalla violenza della guerriglia nella regione di Catatumbo: sequestri, attacchi contro i combattenti ma anche le loro famiglie e chiunque si trovi nella linea di fuoco.
“Undicimila persone in soli quattro giorni secondo i dati raccolti dal nostro ufficio, e potrebbero essere molti di più” dice Irin Marin Ortiz dell’ufficio del mediatore per i diritti del popolo. Davanti all’ambasciata degli Stati Uniti a Città del Messico, alcuni manifestanti picchiano e danno fuoco all’effigie del presidente degli Stati Uniti. Lo slogan dei loro cartelli dice “basta deportazioni. Trump non conosce i diritti umani”.
Alla frontiera, Margelis Tinoco non sa cosa sarà di lei adesso. Dal Venezuela dove viveva con il marito e il figlio di 13 anni è partita sei mesi fa, inseguendo la speranza. “Che Trump abbia pietà, che ci lasci passare il confine, che ci sostenga, perché abbiamo sofferto molto, sono sei mesi di sofferenza”.