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Stavolta hanno vinto tutti. Tutte le principali forze politiche hanno sostenuto il Sì al referendum. Gli unici sconfitti sono nelle amministrative: i 5 Stelle, protagonisti di una solitaria debacle in regioni e comuni. Ma anche Salvini. Più che dai parlamentari tagliati, le ragioni del No, durante la campagna referendaria, erano state incarnate da gruppi, comitati e associazioni con le mani semi libere: costituzionalisti, Arci, Anpi, le redivive Sardine. E dalla base dei democratici, insieme ai pezzetti di sinistra persi negli anni, per niente convinti dal Sì ufficializzato a denti stretti da Zingaretti. Sono loro che hanno detto No, rifiutandosi di seguire le incongruenze dei capi. Ovviamente da soli non sono bastati.
Non stupisca l’affluenza oltre le previsioni. Improbabile l’improvviso ritorno del panico Covid dopo l’allegra estate sulle spiagge: del virus hanno paura sempre in meno e chi ancora lo teme ormai ha imparato a conviverci, forse è meno rischioso un seggio che i mezzi pubblici per arrivarci. E poi in ballo non c’era solo il referendum ma, appunto, anche il rinnovo di 7 consigli regionali e oltre un migliaio di comunali, inclusi 18 capoluoghi di cui 3 di regione.
Taglio dei parlamentari, da Renzi a Conte
Certo siamo lontani dal 65% toccato del precedente referendum costituzionale, quello del 2016. Non accorpava amministrative ma il piatto era più goloso: c’era sopra la testa di Renzi e fu lo stesso premier a servirla sul vassoio trasformando il voto in una consultazione sulla sua persona, sbilanciandosi (troppo) in avanti per non cadere indietro, risucchiato nel burrone d’impopolarità insieme ai consensi raccolti solo due anni prima alle europee. Fu un plebiscito di No. Eppure la Renzi-Boschi aveva gli stessi obiettivi di riduzione di spesa e snellimento di questo referendum. Ancora più netti, contemplando – oltre alla cancellazione di Cnel e Province – un taglio sì dei soli senatori ma drastico: appena 100, la metà di quelli previsti ora.
Un pacchetto che toglieva argomenti al “benaltrismo”: la bizzarra forma mentis, esercitata anche in questa occasione, in base alla quale – visto che una misura buona da sola non basta allo scopo annunciato (ovvero il taglio di parlamentari per ridurre i costi della politica) – si rinuncia a darle seguito con altre che la contestualizzino (come sta avvenendo con la legge elettorale al vaglio delle commissioni competenti) ma viene bocciata e basta: come dire, o si riforma tutto e subito con un tomo di 200 commi o niente. Col risultato di non incassare mai un risultato minimo, che funga da trampolino per cambiare poco a poco l’organizzazione di una macchina che sarebbe rimasta corrotta e poco rappresentativa anche con 30mila parlamentari. Renzi aveva inserito la sforbiciata alle poltrone in una cornice, aggiungendo modifiche al titolo V, all’elezione del presidente della Repubblica, a certi meccanismi legislativi. M5S e centrodestra furono contrari.
La strumentalizzazione del referendum
Da settimane gira sui social un video di 4 anni fa in cui Di Maio stronca il taglio dei parlamentari. La posizione schizofrenica dei partiti sul tema è smaccatamente strumentale al ruolo da difendere nel momento in cui viene espressa. Qualche mese dopo, cambiando pedine della dama, può essere tranquillamente sovvertita sebbene circoli ancora in Rete la versione registrata qualche mese prima. E vale per tutti, Salvini allora gridava al pericolo del “pensiero unico”. Una volatilità di credo dettata da interessi di bottega ma consentita anche dalla poca carne messa al fuoco da questi tentativi di dimagrimento della burocrazia: specie quest’ultimo, lungi dall’incoraggiare l’eversione democratica paventata dai contrari, è una riformina che non sfiora gli inviolabili diritti e doveri della sacra Carta del ’48 ma modifica solo parte delle disposizioni del ’67. Seicento persone bastano e avanzano oggi, per rappresentare proporzionalmente gli unici 5 partiti destinati a superare la soglia del 3% (M5S, PD, Lega, FdI e FI) e dare voce in maniera omogenea alle minoranze della penisola. Se c’è la volontà politica di farlo.
È questa mancanza, qualitativa e non quantitativa, a sostenere il rischio della svolta autoritaria. La partita, sganciata così da serie ripercussioni, resa ”amichevole” dalla scarsa posta in gioco, poteva anche stavolta essere giocata tutta in chiave elettorale, trasformandola nel solito match tra tifosi, in cui ci si schiera non con chi gioca meglio, cioè con i contenuti del quesito, ma con la propria squadra del cuore, cioè in base a chi lo propone.
Hanno vinto tutti
Stavolta però la questione era diversa, perché la proposta del taglio è sorta da una maggioranza diversa da quella che si è trovata a trainarla in porto. Sarebbe stato troppo incoerente e contradditorio per Salvini voltare la faccia a una battaglia che era anche la sua, perché si è fatto fuori da solo dal governo: la sforbiciata secca al Parlamento, il repulisti indifferenziato, la scossa a un po’ di fondoschiena impigriti era un cavallo vincente, cavalcato troppo a lungo per permettersi di mollarlo al traguardo.
Il Pd invece aveva sempre votato contro nelle due letture alle Camere: il Sì è tra i punti del “contratto” estorti un anno fa da Di Maio. Zingaretti è stato costretto a dettare la linea a favore dell’alleato, proprio come hanno fatto Meloni e Berlusconi nei confronti del leader leghista che promette di riportarli al comando: concedendogli il Sì pur non essendo parte dell’ex maggioranza, barrando il riquadro anche se il punto era segnato agli avversari.
Pure i 5 Stelle, unico trait d’union tra prima e dopo, hanno votato col mal di pancia vedendo che la battaglia del Movimento contro la casta s’era ormai diluita e amalgamata negli altri partiti. La tacca del Sì segue poche altre impresse finora sul calcio. Iniziano a essere tanti i rospi ingoiati dall’elettorato, dai vitalizi alla prescrizione, e le rinunce agli ideali costituenti del primo Grillo, come le comparsate tv e il vincolo dei due mandati: la linea dura e pura è stata contagiata dal trasformismo con cui è entrata in stretto contatto, diventando confusa e indecifrabile come quella dei competitor. Il decreto dignità non ha fatto decollare le assunzioni e il reddito di cittadinanza ha trovato posto solo ai navigator: mancano ancora 3 anni alla scadenza del mandato, ma finora l’atteso cambiamento non s’è visto.
Non infieriamo su Berlusconi, che nel ruolo di mediatore moderato che si è ricucito in vecchiaia sta imprimendo una linea mediana a quel resta della sua creatura: né carne né pesce, una boa di salvataggio buona solo a far galleggiare i suoi emissari nei Palazzi, prossima alla condanna all’irrilevanza insieme all’Italia più morta che Viva di Renzi, di cui pure non si capisce dove sventoli la bandiera. Forse si fonderanno in Forza Italia Viva.
Alla fine tutti hanno messo la X sulla scheda turandosi il naso, perché quando vincono tutti c’è poco da rivendicare o festeggiare. I più coerenti sono stati M5S e Lega, che almeno non hanno cambiato idea: ora che per una volta è vero, potranno sbandierare ai quattro venti la loro onestà intellettuale, il mantenimento della promessa. Quella di scoprirsi coerenti con qualcosa di precedentemente annunciato è una felice coincidenza dettata da un imprevisto: la nascita di un esecutivo “giallorosso”.
La vera battaglia è nelle regioni
Se il referendum, avendo carattere nazionale, in genere solletica molto più delle amministrative la lettura in chiave ribaltone o rielezione, stavolta anche i risultati locali parlano del futuro e Conte ha poco di che gioire: anche guardando ai risultati parziali, e non di coalizione, il M5S è scomparso ed è il Pd che ormai regge la baracca a Palazzo Chigi chiudendo sul 4-3 lo scontro con l’opposizione sulle regioni. Al centrodestra è andata meglio nei grandi comuni: solo Trento e Mantova non sono andate all’opposizione. Ma anche la Lega ne esce ridimensionata, e di molto. In Liguria è stato rieletto Toti di Forza Italia e nelle Marche ha vinto Acquaroti di Fratelli d’Italia, che ha fatto un vero balzo all’interno dell’alleanza, riuscendo con Fitto a dare del ferro da torcere pure a Emiliano in Puglia. E anche dentro la Lega è arrivata tra le righe un’indicazione ben chiara: in Veneto Zaia, che non è proprio vicino al suo segretario, ha vinto da solo. La propria lista civica gli ha portato quasi il 50% delle preferenze, contro il 15% guadagnato sotto il simbolo leghista. Salvini farebbe bene a trarne indicazioni utili.