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In principio fu Rockfeller. Già, proprio lui, John Davison Rockfeller, il capostipite dei ricconi passati alla storia come “i baroni ladri”, imprenditori a dir poco rapaci che, nella seconda industrializzazione, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, non si fecero scrupoli a cannibalizzare la concorrenza nei loro settori d’investimento pur di costruire monopoli colossali e inattaccabili.
Prima di lui, in realtà, lo aveva fatto Cornelius Vanderbilt, detto “il Commodoro”, mettendo le mani, attraverso spericolate e disinvolte manovre finanziarie, su tutte le linee ferroviarie di New York e, tra i protagonisti più noti (e più spregiudicati) della cosiddetta “Gilded Age”, l’età dell’oro dell’industria, non va dimenticato John Pierpont Morgan – fondatore della JP Morgan Chase, oggi la più grande banca d’affari del pianeta – e il suo tentativo di riacquistare la licenza della corrente alternata di Westinghouse per consentire alla General Electric di imporsi sul mercato.
Antitrust e monopolio: il paragone con Rockefeller
Tra “i robber baron”, spetta tuttavia proprio a Rockfeller il primato di essere stato il destinatario del primo grande smantellamento della storia americana, ovvero quello della Standard Oil, la compagnia fondata appunto dall’uomo che per primo nella storia sembra abbia superato il miliardo di dollari di patrimonio e che era arrivata a controllare oltre il 90% della raffinazione e distribuzione del petrolio.
La Corte Suprema, dopo anni di pressione dell’opinione pubblica e della politica (grazie anche alla stampa d’inchiesta), stabilì che la compagnia violava lo Sherman Antitrust Act del 1890. Il risultato? La Standard Oil fu divisa in 34 società indipendenti. Da quelle costole nacquero colossi come Exxon, Mobil, Chevron. Ma al vecchio Rockfeller le cose, tanto per cambiare, andarono tutt’altro che male. Visto che dopo lo spezzatino, il patrimonio della famiglia Rockefeller triplicò, nel giro di pochi anni.
Meta sotto processo: cosa accade a Washington
A più di un secolo dallo smantellamento dell’impero petrolifero di John D. Rockefeller, la storia si ripete e un nuovo gigante dell’economia si trova sotto l’analoga accusa di aver ucciso laconcorrenza per consolidare un monopolio. Questa volta, però, il campo di battaglia non è l’oro nero, ma quello dei dati e dei social network.
Al centro del processo è infatti Meta e il suo fondatore Mark Zuckerberg, chiamati a rispondere delle acquisizioni di Instagram (2012) e WhatsApp (2014) per un totale di 20 miliardi di dollari. A sostenere l’accusa contro l’azienda già al centro di numerose altre controversie, è la Federal Trade Commission (FTC), che ha aperto il procedimento il 14 aprile davanti al tribunale federale di Washington. L’avvocato Daniel Matheson non ha usato mezzi termini: “Meta ha violato le leggi antitrust. Ha scelto di comprare i suoi rivali anziché competere con loro.”
Il parallelo storico è forte. Come nel caso della Standard Oil, la strategia dominante si sarebbe realizzata sottraendo spazio vitale ai concorrenti, con una struttura sempre più concentrata. Ma oggi, al posto delle raffinerie, ci sono le app. E al posto delle taniche di petrolio, ci sono miliardi di dati personali.
Instagram e WhatsApp, Zuckerberg e le acquisizioni nel mirino della FTC
Secondo la FTC, dopo l’acquisizione di Instagram, Meta avrebbe modificato intenzionalmente le funzionalità dell’app per non oscurare Facebook, ancora più redditizio. Una mossa “razionale dal punto di vista aziendale”, ha ammesso Matheson, “ma contraria alle leggi sulla concorrenza”.
Durante la seconda udienza, i giudici hanno visionato una mail interna del 2018, inviata da Zuckerberg ai suoi più stretti collaboratori. Oggetto: smantellamento. Nella missiva, il CEO scriveva che “molte aziende, dopo una scissione, ottengono risultati migliori”. Un’ammissione? O un calcolo strategico, nel clima politico incerto del primo mandato di Donald Trump?
Leggi antitrust Stati Uniti, vittima anche l’AT&T
Il processo a Meta arriva in un clima politico e culturale che richiama alla mente, appunto l’età dei “robber baron” di fine ‘800, accusati, ai loro tempi, di aver chiuso i mercati con alleanze e monopoli e anche loro, protagonisti, come detto, di smantellamenti clamorosi che però non li rovinarono. Anzi. Zuckerberg probabilmente sarà andato a rileggersi l’epopea di Rockfeller. Anche se il suo impero – con Instagram, WhatsApp e Facebook – è sotto esame, un eventuale spezzatino potrebbe rivelarsi un affare per gli azionisti. Non è un caso se, a Wall Street, si guarda al processo più con curiosità che con timore.
La storia americana è costellata di casi antitrust emblematici, che oggi fanno da specchio alla vicenda Meta. Dopo quella della Standard Oil del 1911, val la pena citare, in tempi più recenti, lo smantellamento nel 1982 di AT&T, caratterizzato dalla fine del monopolio telefonico e dalla nascita delle “Baby Bells” con cui il settore si aprì alla concorrenza.
Cosa rischia Meta: smantellamento o rinascita?
Meta, però, potrebbe essere la prima Big Tech dell’era dei social a seguire lo stesso destino. Ma a differenza del passato, il cuore del potere non è la produzione o la rete fisica: è la capacità di modellare la comunicazione e la percezione pubblica.
Il verdetto potrebbe ridefinire l’intero ecosistema digitale. Non è solo Meta sul banco degli imputati, ma un modello economico basato su acquisizioni lampo, controllo dei dati e concentrazione di potere.
Se il tribunale accoglierà le tesi della FTC, assisteremo a uno smantellamento epocale, con Meta costretta a separare i suoi gioielli. Sarebbe il primo precedente storico contro una tech company nata nel XXI secolo. Ma, paradossalmente, non è detto che sia una sconfitta per Zuckerberg. Come con Rockefeller, lo spezzatino potrebbe persino rilanciare i singoli marchi in Borsa.
La vera domanda è: quanto potere può tollerare una democrazia liberale in un solo soggetto privato? Se la risposta del tribunale sarà un nuovo smantellamento, sarà il segnale che gli Stati Uniti sono ancora disposti a contenere l’eccesso di concentrazione, anche quando si tratta di icone dell’innovazione. Altrimenti, il rischio è che i nuovi baroni non abbiano più bisogno dell’oro. Basta un algoritmo.