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Novanta miliardi, forse anche di più, di nuovi capi di abbigliamento prodotti all’anno.
Più o meno una decina per ogni abitante della Terra. Li compri a poco, magari online, li usi al massimo 6-7 volte, poi li metti via, alla fine te ne liberi nei cassonetti dell’usato e, nel giro di qualche anno, fanno il giro del mondo per diventare materiale da discarica, duro da smaltire, in Ghana o nel deserto di Atacama in Cile, ad esempio.
Quanto inquina il fast fashion
Si chiama “fast fashion”, si legge H&M, Zara, Primark, Topshop, Benetton, Mango, Shein e altre decine di rivenditori globali che dell’iperproduzione di vestiti “usa e getta” hanno fatto un marchio di fabbrica. Un modello produttivo fondato su un turnover frenetico delle collezioni – il colosso cinese dell’ultra fast fashion Shein è arrivato a caricare sulla sua piattaforma e-commerce fino a 6000 prodotti nuovi in un solo giorno – e su tessuti sintetici a basso costo, che da una ventina d’anni ormai garantisce ai brand fatturati a molti zeri e altissima marginalità.
Il punto è che tutto ciò ha un costo salato, e non è quello sul cartellino esposto nelle vetrine modaiole dei centri città o sui siti specializzati, ma piuttosto quanto paghiamo tutti – inteso come popolazione del pianeta – in termini di impatto sull’ambiente e sulla società.
All’ONU, qualche anno fa, hanno fatto un po’ di conti: il fast fashion è responsabile del 10% delle emissioni globali di gas serra (in pratica più di quanto generino, insieme, i settori del trasporto aereo e marittimo).
Il che vuol dire che questa produzione intensiva e selvaggia di maglie, pantaloni e cappotti cheap, di fatto, ha trasformato l’antica e nobile arte della moda in una delle industrie più inquinanti a livello globale. Mezzo milione di tonnellate di microfibre di plastica rilasciate nell’ambiente dagli abiti sintetici durante il lavaggio, 79 trilioni di litri d’acqua consumati ogni anno, intere aree del mondo trasformate in discariche a cielo aperto di vestiti usati, per non parlare dello sfruttamento sociale di manodopera sottopagata e messa a lavorare in condizioni inaccettabili.
I dati che circolano in proposito mettono i brividi. E, dopo i report di ONG e associazioni ambientaliste e svariate inchieste giornalistiche, sono ormai di dominio pubblico.
Moda usa e getta, mercato in crescita
Ma per i nuovi grandi player di questa moda che sforna vestiti a getto continuo per chi vuol cambiare senza spendere troppo, il business, ovviamente, continua a girare, e alla grande. La società di analisi e ricerche Statista ha misurato in 120 miliardi di dollari a livello globale il valore attuale del mercato del fast fashion, un volume d’affari che entro il 2027 dovrebbe superare i 184 miliardi.
Per fare qualche nome e cognome, il gruppo Inditex (la holding che detiene la proprietà di Zara e dei marchi Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius e Oysho) nel 2022 ha fatturato 32,6 miliardi di euro (+17,5% rispetto al 2021), Shein ha chiuso a 23 miliardi di dollari mentre gli svedesi di H&M si sono fermati a 20 miliardi.
Gaetano Aloisio: “Alta sartoria italiana a rischio”
Un giro colossale di soldi, shopping compulsivo e vestiti di scarsa qualità che, oltre a sfruttare le risorse umane impiegate e a incidere negativamente sull’ambiente, rischia, sul lungo periodo, di lasciare sul campo anche un’altra vittima illustre: l’alta moda sartoriale.
Quella che – per qualità dei capi, per i tessuti usati, per l’attenzione alla sostenibilità lungo tutta la filiera produttiva e per il target di mercato – sta esattamente agli antipodi del fast fashion. E che adesso, in Italia – terra d’elezione dell’alta moda – ha deciso di alzare la voce per difendersi dalla difficoltà a competere (ad armi impari).
«È tempo che le istituzioni, in Italia e in Europa, tutelino con fermezza e decisione il nostro ruolo e le nostre produzioni», chiede Gaetano Aloisio, Maestro di alta moda e Presidente dell’Accademia Nazionale dei Sartori, la più antica associazione italiana del settore abbigliamento, un ente di alta formazione per il fashion italiano attraverso il quale, di recente, ha chiamato a raccolta a Roma, nella sede di Confartigianato, imprese, figure politico-istituzionali ed esperti per discutere di “sostenibilità nel mondo sartoriale”. «L’Unione Europea spinge verso la sostenibilità, chiedendo il rispetto per l’ambiente, gli animali e le materie prime.
Questo dovrebbe obbligare tutti a ripensare alle nostre pratiche e ad adottare soluzioni più rispettose dell’ambiente, non solo nella scelta dei materiali, ma anche assicurandoci che la produzione sia realmente sostenibile» ha detto nell’occasione Aloisio, puntualizzando «che adottare pratiche sostenibili non significa rinunciare all’eleganza o alla qualità. Un capo su misura realizzato con materie sostenibili è un vero e proprio investimento».
Da qui il richiamo all’Ue: «La sartoria italiana deve essere all’avanguardia e l’Europa e i governi devono riconoscere il nostro ruolo, difendendoci dalla fast fashion».
E non è mancata la frecciata: «Bisogna superare la logica della “taglia unica” imposta dall’Europa – ha chiosato con una metafora a lui congeniale, il principe dei sarti italiani, come è stato ribattezzato – ogni Paese ha una propria economia e delle specificità che vanno rispettate».
Ettore Piacenza: a Bruxelles 40 lobbisti per il fast fashion
All’happening romano sulle sfide della moda sostenibile c’erano anche il Presidente di Confartigianato Imprese, Marco Granelli, che ha fatto gli onori di casa, parlando di “supremazia dell’intelligenza artigiana” come punto di forza per l’Italia nel panorama internazionale e mettendo l’accento poi su due aspetti fondamentali per le PMI italiane: formazione e credito.
«Le piccole realtà devono essere supportate affinché possano affrontare le sfide della sostenibilità senza perdere la propria identità artigiana», ha spiegato Granelli, evidenziando come sia necessario mantenere un equilibrio tra la responsabilità estesa dei produttori e la preservazione delle peculiarità delle imprese artigiane.
Ci è andato giù molto più duro, invece, Ettore Piacenza, imprenditore tessile dell’omonimo gruppo, oggi Presidente della sezione Lanifici dell’Unione Industriale Biellese: «La sostenibilità è una grande sfida e non è solo un fatto ideologico ma di quattrini – ha detto senza tanti giri di parole – infatti, gruppi come H&M e Zara, che producono principalmente capi sintetici, hanno una quarantina di lobbisti che lavorano per loro a Bruxelles.
Noi ne abbiamo solo uno. Potete immaginare quanto sia complicato competere in queste condizioni».
E su quanto sia difficile coniugare, nel proprio modello di business, qualità e rispetto dell’ambiente ha aggiunto: «La sostenibilità ha un costo, e tutti lo sappiamo. Nel frattempo però, vediamo ancora tonnellate di prodotti arrivare dalla Cina, non conformi alle nostre regole. Ciò che chiediamo all’Europa è di garantire parità di condizioni. Noi dobbiamo fare squadra perché le regole si cambiano a Bruxelles, non a Biella o a Roma.
Il riciclo non deve significare abbassamento della qualità o della durabilità dei capi, perché se utilizziamo fibre più corte per riciclare, il prodotto finale sarà meno resistente e avrà una vita più breve. La filiera tessile è la più lunga e complessa al mondo, e in pochi lo sanno. Dentro l’industria tessile ci sono molti passaggi artigianali: pensate che a Biella nel 2000 c’erano 1.600 imprese, oggi ne rimangono 600. La delocalizzazione e i costi di produzione hanno fatto sparire più della metà delle aziende. Quindi, sì alla sostenibilità, ma che sia sostenibile anche per il nostro sistema manifatturiero» ha concluso. Una denuncia in piena regola che ha strappato gli applausi calorosi di imprenditori e artigiani in platea.
Green Deal? Meno ideologia, più competitività
Della necessità di investire di più sull’economia circolare hanno parlato Michele Priori, consigliere di amministrazione di Cobat Tessile e Patty L’Abbate, Vicepresidente della Commissione Ambiente della Camera dei deputati e, alla fine, è toccato all’europarlamentare Elena Donazzan, Vicepresidente della Commissione ITRE del Parlamento UE, provare a rassicurare tutti, criticando apertamente le precedenti stagioni politiche europee – «troppo influenzate da furore ideologico» ha detto – e promettendo una “nuova stagione” per l’industria della moda in Europa, con un focus sul Green Deal più concentrato su competitività e innovazione: «Il nuovo obiettivo deve essere quello di supportare le PMI realmente sostenibili e di garantire una gestione oculata del capitale umano, soprattutto nell’utilizzo dei fondi destinati alla formazione», ha aggiunto Donazzan prima di congedarsi.