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La manovra di bilancio e il matrimonio coi fichi secchi

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La manovra finanziaria 2023, la prima del nuovo governo di Giorgia Meloni, è al nastro di partenza. Entro stasera, infatti, il consiglio dei ministri approverà il testo finale della legge di Bilancio che sarà poi trasmesso al voto delle Camere.

La manovra finanziaria 2023, la prima del nuovo governo di Giorgia Meloni, è al nastro di partenza. Entro stasera, infatti, il consiglio dei ministri approverà il testo finale della legge di Bilancio che sarà poi trasmesso al voto delle Camere. L’approvazione è ovviamente scontata, vista la solida maggioranza parlamentare su cui conta il governo: meno sicuri sono invece gli effetti concreti che avrà una manovra basata essenzialmente sui sussidi a pioggia su un paese in crisi industriale e del lavoro e senza un vero progetto di politica economica per fronteggiare la sfida dell’inflazione e quella della ripresa.

Per rilanciare il Paese, in sintesi, l’esecutivo di centro-destra ha messo in bilancio oltre 30 miliardi di euro, ma concentrati soprattutto sull’emergenza energetica: oltre 21 miliardi di euro, la “dote” ottenuta tramite il deficit aggiuntivo, saranno destinati infatti alle misure (in realtà già esistenti) contro il caro-energia, così come promesso in campagna elettorale. Gli sconti sulla benzina e sulla bolletta di gas e luce per le imprese e le famiglie a basso reddito, “consumeranno” quindi due terzi delle risorse complessive della legge di bilancio. Un impegno sicuramente premiante sotto il profilo del consenso a breve termine, ma di fatto incapace di sostenere quella “svolta competitiva” attesa non solo dagli italiani ma anche dai mercati finanziari, finora molto generosi con il nuovo esecutivo: ciò vale soprattutto per gli investitori sul debito italiano, la cui apertura verso il governo di centro-destra ha permesso ai tassi di interesse dei BTP di scendere di quasi un punto percentuale nell’ultimo mese.

A fare le spese della concentrazione delle risorse sui sussidi è stato di fatto tutto il resto degli impegni annunciati in campagna elettorale: dal taglio del cuneo fiscale alle pensioni fino alla flat tax. La nuova legge di bilancio mette sul piatto del fisco “leggero” poco più di 5 miliardi di euro per il taglio di 3 punti del cuneo fiscale, ma di questi, 2 miliardi andranno a confermare lo sconto contributivo del governo Draghi per i lavoratori con redditi fino a 35mila euro e un punto andrà ridurre la quota contributiva a carico delle imprese. Cifre ben lontane non solo dalle aspettative dei lavoratori dipendenti, ma anche dall’intervento “shock” auspicato dalle imprese: secondo il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, il governo avrebbe dovuto destinare almeno 16 miliardi al taglio del cuneo fiscale per i redditi sotto i 35mila euro, di cui due terzi a favore dei lavoratori. In soldoni, 1.200 euro all’anno in più in busta paga in modo strutturale. Ma riconfigurare la spesa pubblica per un 4-5%, il minimo necessario per finanziare una seria manovra di riduzione delle tasse, richiede molto coraggio e soprattutto grandi tagli di spesa e di sprechi. Ma almeno per ora, questo impegno non si vede: da un governo davvero “di svolta”, sarebbe legittimo aspettarsi di più. Che dire? Il governo ha certamente margini di manovra molto stretti in termini di spesa, ma i vincoli europei – e la ricerca del consenso a breve – non possono essere un alibi che evitare le scelte coraggiose sulle riforme e sui tagli di spesa. E soprattutto per rimandare interventi strutturali sul mercato del lavoro per contrastare la disoccupazione e la ristrutturazione delle imprese. L’unico vero colpo di scure sui sussidi ha riguardato il Reddito di cittadinanza, azzerato per 660mila “occupabili”. Ma occupabili dove, come e quando resta un mistero: per finanziare una “manovrina”, si rischia di creare una bomba a orologeria sociale.

Per concludere, i segnali di svolta che avrebbe dovuto dare il governo sono ancora assenti o appena abbozzati nella legge di bilancio, risultato evidente di una manovra molto populista e troppo condizionata da compromessi e discussioni su questioni al limite del grottesco. L’ultimo braccio di ferro intorno alla bozza di manovra ha riguardato infatti l’azzeramento dell’Iva su pasta, pane e latte: la proposta, sui cui effetti positivi non esistono certezze, ha scatenato giorni di polemiche tra le forze di governo intorno a un provvedimento da appena 450-500 milioni complessivi, una chiara misura di come gli spazi di movimento del governo di Giorgia Meloni siano estremamente limitati. E di come ci si continui a concentrare su piccole cose, mentre due dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del centrodestra, la flat tax e gli anticipi pensionistici per superare la Legge Fornero, è praticamente certo che arriveranno azzoppati rispetto agli impegni. Secondo le indiscrezioni, salterà la flat tax incrementale, mentre Quota 41 sarà limitata a 62 anni: le grandi riforme fanno sempre il gioco dell’Oca.

In questo contesto già politicamente imbarazzante, sono poi le idee più strampalate a rendere il clima incandescente. Come la proposta fatta emergere dalla Lega alla vigilia del voto sulla manovra: un sussidio di 20mila euro per le coppie che si sposano in Chiesa. Come è ovvio, si tratta di un’idea insostenibile non solo economicamente, ma anche sotto il profilo della laicità dello Stato: se l’economia del paese non riparte al più presto, le nozze di Stato si celebrano con i fichi secchi.