L‘oreficeria romana nacque nel I secolo a.C.; vittorie e conseguenti saccheggi ai danni delle popolazioni sottomesse, fecero affluire nella città una gran quantità di tesori, tra cui oro, perle e gemme preziose.
Gli orefici romani lavoravano l’oro sotto forma di lamine e fili, oppure mediante fusione.
Per ottenere lamine sottili, dopo una prima, grossolana battitura sull’incudine, il metallo veniva inserito fra due pelli di vitello e martellato finché non raggiungeva lo spessore desiderato.
Le lamine, decorate con diverse tecniche o lasciate lisce, venivano utilizzate per vari tipi di gioielli, che risultavano però vuoti e molto fragili, per cui venivano riempiti di zolfo o pece al fine di renderli più resistenti.
Vari procedimenti di torsione delle lamine permettevano di ottenere il filo d’oro, utilizzato soprattutto per creare collane e per la lavorazione a filigrana.
La fusione, tecnica attraverso la quale si potevano creare monili meno fragili, avveniva in stampi di pietra; si faceva anche ricorso alla complicata tecnica detta a cera persa, la stessa adoperata per le grandi statue di bronzo, con cui si realizzavano oggetti internamente cavi.
Una decorazione raffinata molto usata era quella della granulazione, ripresa dagli Etruschi, che consisteva nel creare un disegno grazie a piccole sferette poste su un fondo liscio.
In una fase avanzata dell’Impero, si fece largo uso della lavorazione a traforo.
Non va dimenticato infine, che gli orafi romani furono abilissimi nel mescolare l’oro con pietre preziose, con cui crearono gioielli di eccezionale fattura.