L’Aula d’appello del tribunale di Taranto ha ribaltato la decisione iniziale del caso ‘Ambiente Svenduto’ che coinvolgeva 37 imputati e tre imprese per il supposto disastro ecologico prodotto dall’ex Ilva durante l’epoca di controllo della famiglia Riva.
La proposta degli avvocati di trasferire il procedimento a Potenza è stata accolta, poiché i giudici tarantini, sia i magistrati che i giudici popolari, che avevano espressa la decisione iniziale, potrebbero essere anch’essi considerati ‘vittime’ del disastro ecologico. Nella sentenza di primo grado, 26 dirigenti, manager e politici della fabbrica furono condannati a complessivi 270 anni di prigione. Il Tribunale d’Assise ordinò la confisca degli stabilimenti dell’area ad alta temperatura e la confisca dell’illecito guadagno delle tre aziende Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici, per un importo totale di 2,1 miliardi.
Le ragioni di questa ultima decisione verranno presentate entro due settimane. “È con grande frustrazione che abbiamo osservato l’esito dell’udienza di oggi. L’azione di trasferire il processo d’appello Ambiente Svenduto a Potenza avrà ripercussioni molto serie per l’intera popolazione di Taranto. Di fatto, il cambiamento di sede implica l’annullamento del processo di primo grado e ciò comporterà un prolungamento dei tempi della giustizia e un rischio reale di scadenza per reati molto gravi come il racket e, probabilmente, l’omicidio per colpa” affermano Alessandro Marescotti e Fulvia Gravame di Peacelink.
“L’ombra dell’impunità – proseguono – si cerniera sopra il caso ‘Ambiente Svenduto””.
E’ da ricordare che nel corso delle udienze, i pubblici ministeri si sono mostrati decisamente contrari al cambio di venue del processo, enfatizzando la mancanza di sostanza nelle contestazioni avanzate dalle difese degli imputati. Mentre continua la battaglia contro l’inquinamento causato dall’Ilva, continueremo a garantire la nostra presenza, ci impegniamo – affermano – in ogni iniziativa volta a preservare la popolazione.
Ci schiereremo sempre al fianco delle vittime in quella che è stata denominata dall’Onu ‘zona di sacrificio’.