Scoperta da Colombo, popolata di schiavi, l’isola “bella e verde” ha patito nei secoli colonizzatori, liberatori e catastrofi naturali
Fino all’altro ieri, quando terra e cielo si sono fatti un inferno e il mondo si è capovolto da dentro le viscere delle strade e dei campi, a Haiti c’era ancora un vecchio monumento a ricordare lo sbarco di Cristoforo Colombo.
[La Stampa] – Era stato il 6 dicembre del 1492, e «Hay tierra, tierra por ahì», aveva gridato quel mattino il marinaio dall’alto della coffa della «Santa Marìa», e puntava il braccio verso sudest, nemmeno tanto sorpreso.
Cristoforo Colombo, il Nuovo Mondo lo aveva ormai inventato da un paio di mesi: era sbarcato con la bandiera e la Croce a San Salvador il 12 ottobre, avamposto di tutte le Indie, e ora ecco che arrivava in quest’ultima isola prima di tornarsene a Madrid, e volle chiamarla La Espanôla, poi in latino Hispaniola. «Bella, verde di grandi alberi, e di grandi montagne», aveva annotato orgoglioso nel giornale di bordo della sua caravella.
Quel monumento a Colombo, il terremoto dell’altro ieri se l’è divorato. E Haiti resta ora appesa nel limbo di un tempo che pare doversi dimenticare d’ogni passato, assegnata simbolicamente al proprio destino di crocevia dannato della Storia dove tutte le contaminazioni, e le contraddizioni sanguinose, di questi 500 anni paiono essersi decantate sul fondo aspro delle sue terre. Perché non v’è angolo del pianeta più infelice, forse, di quest’isola un tempo «bella e verde» ma ora terzultima nelle classifica dei paesi più poveri; ma non v’è angolo del pianeta dove più che in questa Hispaniola-Haiti sia passato davvero il vento della Storia lasciando sulle sue spiagge nere e sui monti azzurri delle sue Alte Terre le tracce delle vicende, delle lotte, dei traffici, delle miserie, dei sogni, delle speranze, delle superbie inquiete, che hanno fatto la cronologia amara e forte delle società umane dal tempo lontano del Nuovo Mondo a oggi.
A Hispaniola-Haiti è passato di tutto. C’è passato il colonialismo, che è stato la storia dell’Europa centro dell’universo da quell’ottobre di metà millennio fino agli anni dell’ultimo dopoguerra, quando Fanon chiamava il mondo dei diseredati a ribellarsi loro destino di «dannati della Terra». Un colonialismo che ha segnato nell’isola tutte le tappe della sua mutazione planetaria: prima, quello degli spagnoli alla ricerca disperata dell’oro, con l’annientamento di tutti gli indigeni delle etnie Taìno e Arauachi e la loro progressiva sostituzione con gli schiavi africani importati dai negrieri arabi (ancora nel ‘700, vivevano nella colonia spagnola dell’isola 32.000 europei padroni d’ogni respiro, 28 mila mulatti, la gens de couleur mezza libera e mezza serva, ma più di 500 mila schiavi impiegati come bestie nelle miniere e nelle piantagioni di zucchero), e poi quello nord-americano, che s’impadronì dell’isola con un colpo militare nel 1915 e la controllò fino al ’34 in ossequio alla dottrina Monroe, per tenere alla larga le ambizioni delle potenze europee, la Francia (che controllava ora l’altra metà dell’isola, quella chiamata oggi Santo Domingo) e la Germania.
C’è passato poi, ad Haiti, il sogno della libertà dei poveri, seguendo le utopie felici che la Rivoluzione Francese proclamava a Parigi dalla Sala della Pallacorda. Gli schiavi neri dell’isola, quelli concentrati nelle terre di Cap Francais, si ribellarono ai loro padroni il 22 agosto del 1791 e lanciarono il proclama anch’essi della «Revolution», trasformandosi in un esercito di straccioni e di disperati che – epigoni di Spartaco – s’alleava con i mulatti della gens de couleur e con gli schiavi fuggiti verso le Alte Terre dell’interno, i maroons libertari, anarchici, figli lontani di quei «Fratelli della Costa» che avevano già fatto dell’isola l’approdo e il santuario dei bucanieri e dei pirati che veleggiavano per il Caribe battendo al vento la loro bandiera nera con il ghigno bianco del teschio.
La Rivoluzione trionfò, battè l’esercito ufficiale di Napoleone e di Parigi e proclamò l’indipendenza di quella che da quel giorno, il 1° gennaio del 1804, e per sempre cancellava la memoria coloniale di Hispaniola e diventava soltanto Haiti (ricordando l’antico nome che all’isola, Ayiti, davano gli indigeni annientati dai successori di Colombo). Ma ad Haiti c’è anche passata la delusione della decolonizzazione, che doveva segnare il nuovo mondo nato dalla II Guerra mondiale e ha invece travolto e squassato il destino di gran parte di quella che è la vera Madre Patria dell’isola – l’Africa lontana – e ha anche tradito le illusioni di una Revolution che ad Haiti liberata sembrava impiantare il tempo nuovo dei popoli dei poveri e invece non riusciva ad andare ad di là di un messaggio di solidarietà lanciato ai sogni bolivariani dell’emisfero.
Il potere «decolonizzato» impiantato con la Revolution rivelò tutta la propria incapacità a gestire il futuro delle sue genti nere, perdendosi – proprio come in Africa – in un marasma di corruzione, di violenza incontrollata, di ambizioni sanguinarie e dittatoriali, di colonnelli e generali che usavano la forza delle armi per spartirsi le spoglie dell’isola. Simbolo di questa sconfitta amara di tante speranze è la «presidenza a vita» che consegnò l’isola nelle mani di «Papa Doc» Duvalier e poi del figlio «Baby Doc», feroci padroni d’ogni haitiano con l’appoggio degli agenti segreti dei «Ton Ton Macoutes»; la loro storia precipiterà fino ai nostri giorni in una sequela di colpi di Stato che nulla più ricordano delle illusioni della Revolution libertaria.
Le povere pietre del monumento a Colombo oggi sono ammassate e confuse con le povere pietre delle case e dei palazzi schiantati dal terremoto. La Storia si mescola e pare dimenticare, tra le urla e i pianti di chi è sopravvissuto, quello che il tempo aveva darto ad Haiti.