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Caso Genovese, non basta l'anonimato a proteggere le vittime

non è l'arena caso genovese puntata

È davvero un bene per queste ragazze così provate, spezzate, rivivere in uno studio televisivo il trauma, essere al centro dell’attenzione tra i personaggi di un set drammatico?

Da settimane su La7 a Non è l’Arena va in onda una sorta di “processo” ad Alberto Genovese, l’imprenditore in carcere da ottobre con l’accusa di aver stuprato una ragazza nel suo attico milanese. Un episodio non isolato: altre ventenni hanno denunciato di aver subìto violenza da lui dopo essere state drogate con sostanze che a dosi elevate stordiscono fino a rendere incoscienti e incapaci di ricordare.

Nella trasmissione del 24 gennaio erano presenti due delle ragazze che accusano Genovese. Due “bambine”: così le hanno definite più volte il conduttore Massimo Giletti, l’avvocato difensore e Nunzia De Girolamo, sia per descrivere agli spettatori il profilo delle vittime, la cui identità è stata ovviamente celata, sia per rimarcare la gravità, l’orrore di una violenza ancora più subdola perché esercitata da una persona grande nei confronti di una più piccola, in un contesto di presunta amicizia, di sconsiderata fiducia, di dipendenza totale. Le testimonianze hanno rivelato in pieno gli effetti devastanti dell’esperienza vissuta, l’impossibilità, ancora, di dissociarsi da quel giro che le ha mentalmente soggiogate: una delle ragazze ha confessato, piangendo, di provare sentimenti per Genovese. La brutalità di quest’uomo le ha colpite a tradimento privandole per sempre di quella leggerezza che non è incoscienza, ma come sosteneva Cicerone, è il “bene prezioso dell’età che sorge”.

Giletti, commosso, ha parlato di “vite spezzate”. Ha anche chiarito, ieri, forse per spegnere le numerose polemiche suscitate dal programma, che si è soffermato così a lungo sulla vicenda per un nobile fine: mostrare il lato oscuro di certi ambienti vip, le insidie nascoste, e neanche tanto, visto che la droga era servita tranquillamente nei piatti, in alcune ville super panoramiche di Milano, Ibiza, Mykonos.

Il succo è: state attenti ragazzi, può capitare e non sapete neanche come, che vi ritroviate all’improvviso in questo mondo di lusso che prima sbirciavate con un po’ di invidia sui social, che vi ci portano addirittura col Jet privato alla festa, pur di avervi lì con loro. Di chi stiamo parlando? Di Genovese, ma non solo di lui, mostri odierni che con la stessa forza distruttiva di Scilla e Cariddi prima ammaliano i giovani, li afferrano e poi li divorano.

Parlarne perché non accada più, va bene. Ma c’è una domanda da fare a Giletti: perché nelle settimane precedenti ha dato voce e attenzione mediatica agli amici di Genovese che con le loro mezze frasi, insinuazioni, allusioni hanno disegnato ritratti poco edificanti delle vittime, perché indulgere sui particolari più pruriginosi della vicenda, di relazioni promiscue, di un mondo triste e squallido dedito principalmente allo sballo? È un valore aggiunto per l’informazione seria?

C’è un’altra domanda per la brava e illuminante psicoterapeuta Stefania Andreoli: è sicura che per il bene di altri giovani, sia stato proprio un bene per queste ragazze così provate, spezzate, rivivere in uno studio televisivo il trauma, essere al centro dell’attenzione tra i personaggi di un set drammatico, come lo ha chiamato Giletti?

Anche se in questo caso nessuno le ha costrette, non è bastato l’anonimato a proteggerle.