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Coronavirus, il caso Veneto: un'epidemia contenuta

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Il caso Veneto, durante l’epidemia, è stato preso d’esempio per efficienza e velocità. Ma com’ha fatto la Regione a contenere così bene il Covid-19?

Il caso Veneto, durante l’epidemia da coronavirus, è stato preso d’esempio per efficienza e velocità. Ma com’ha fatto la Regione a contenere così bene il Covid-19 ed esserne uscita così poco colpita?

Il caso-modello Veneto

Vo’ è stato il nome che, dai primi i giorni dello scoppio del Covid-19, gli italiani hanno imparato a conoscere. Insieme a Codogno, il piccolo comune in provincia di Padova, è diventato il focolaio dell’epidemia, e la situazione della Regione è stata per giorni monitorata – con una certa preoccupazione – insieme a Lombardia ed Emilia-Romagna. Nonostante la situazione rimanga seria, è evidente che i danni all’interno dell’ultima siano stati notevolmente contenuti: com’è stato possibile ciò? Dall’inizio della diffusione del Covid-19 i decessi sono stati ben 940, ma grazie al metodo con la quale la popolazione è stata testata, si può avere un quadro reale di come il virus abbia circolato al suo interno. Merito delle decisioni tempestive prese e della prudenza applicata fin da prima che il virus stesso fosse scoperto in Italia: dietro tutto questo il microbiologo dell’Università di Padova, Andrea Crisanti, che dirige uno dei laboratori più importanti nazionali. Ancora prima dell’arrivo del coronavirus stesso, la Regione aveva difatti – dietro suggerimento di Crisanti – deciso che avrebbe investito soldi e risorse per garantirsi la possibilità di fare il test per rilevare il virus. Ad oggi possiamo infatti parlare di “modello Veneto”.

La preparazione del Veneto

Sabato 22 febbraio, dopo il primo decesso in Italia per Covid-19, il Governo firmò un decreto rendendo Vo’ e Codognozona rosse“, mentre già l’ospedale di Schiavonia, in provincia di Padova, era stato chiuso la sera precedente. Ma il Veneto si era già attrezzato dal 20 gennaio, ovvero pochi giorni dopo che l’OMS aveva diffuso i protocolli per i test per rivelare il coronavirus, cosa che spinse Crisanti – al tempo – a informare la direzione sanitaria della regione che avrebbe fatto un ingente acquisto per assicurarsi i reagenti per analizzare circa 500mila tamponi. “Era il nostro compito istituzionale, visto che siamo un riferimento in Italia. All’inizio abbiamo usato le macchine in laboratorio, che bastavano per 200-300 test al giorno”, ha spiegato Crisanti al Post, “Poi vista la richiesta abbiamo aumentato, all’inizio con i turni per coprire 24 ore, poi aprendo un’altra linea arrivando a una media l’altra settimana di 2.500 tamponi al giorno”. Nonostante tutti i reagenti, che oggi scarseggiano in Italia, il laboratorio stesso si è trovato in difficoltà per la mancanza di materiale, accumulando un certo ritardo nell’analisi dei tamponi. Tale mancanza ha spinto l’amministrazione regionale ad acquistare una macchina d’autoproduzione statunitense in grado di analizzare fino a 9.000 tamponi al giorno, più o meno quanti ne elabora l’intero sistema di laboratori lombardi nello stesso arco di tempo. Tempi più veloci e reagenti risparmiati: “L’abbiamo ordinata ed è arrivata in 2 o 3 giorni, e poi una settimana dopo sono arrivati i supporti di plastica necessari per le analisi”, conclude Crisanti. La Regione Veneto conta oggi 216mila tamponi analizzati, con una media di 7.900 al giorno, più o meno quanti la Lombardia, con la differenza che il Veneto ha meno di cinque milioni di abitanti e la Lombardia più di dieci: 15mila contagi e 940 decessi contro 62mila contagi e oltre 11mila morti. Per ogni caso scoperto il Veneto ha fatto 14,8 tamponi, la Lombardia 3,6, l’Emilia-Romagna 5 e il Piemonte 4,2.

Tamponi a tappeto e reagenti

“Li facciamo a tutte le persone che hanno anche solo sintomi leggerissimi, ai familiari e ai contatti certi dei positivi”, ha commentato Crisanti rispetto ai tamponi. La stampa italiana ha sottolineato come ci siano tantissime persone nel Nord Italia che denunciano sintomi acuti – o sospetti – che non vengono però sottoposti né a cure né a tamponi, cosa che appunto in Veneto succede molto più raramente. I test sono stati quasi effettuati “a tappeto“, con l’unica eccezione di Vo’, appunto, che fu testata solo dopo il primo caso: “I dati di Vo’ erano sotto gli occhi di tutti e non ci si è resi conto che il 3 per cento per un’infezione virale senza nessuna misura di contenimento è come avere una bomba innescata”, ma – proprio grazie ai dati raccolti nel comune – è stato possibile effettuare uno studio epidemiologico rivelando come anche gli asintomatici potevano trasmettere il virus tanto quanto i sintomatici. Qualcuno ha messo in dubbio i reagenti autoprodotti dalla Regione Veneto, come Federico Perno, virologo dell’ospedale Niguarda di Milano: “Dare un tampone negativo a un paziente significa cambiare la sua storia diagnostica. Se il reagente autoprodotto non è di qualità, si rischia di inficiare la diagnosi. La qualità è importantissima: nella scienza non avere un risultato è meglio di avere un risultato sbagliato”. La difesa di Crisanti, anche con la controprova della risposta regionale, è stata precisa e secca: “Se c’è uno sbaglio di uno ogni mille, in un’epidemia quello che conta sono i numeri: che qualcuno sfugga sta nella logica dei grandi numeri. Se non si fanno i tamponi perché non si accetta un errore dell’1 per mille si è sbagliato strategia”, sottolineando come questi reagenti, contrariamente, siano di qualità superiore a quelli delle aziende.

Territorio e ricoveri

La conformazione più rurale e meno urbana della Lombardia ha indubbiamente aiutato nella diffusione e nel contenimento dell’epidemia. “Abbiamo ricoverato meno, perché la politica è stata di ricoverare solo chi aveva bisogno, senza intasare gli ospedali”, ha continuato Crisanti al Post, “Questa battaglia si vince nel territorio e non nelle corsie: ricoverare le persone che potevano essere gestite a casa era dannoso per l’ospedale stesso”. Un controllo del personale, formato da circa 7.200 persone di cui positivi solo 72 operatori, con rigide misure comportamentali per proteggere l’insieme e assicurarsi fosse dotato di tutto il materiale possibile, con dei test – ad oggi – effettuati ogni 10 giorni, per coloro che trattano con i pazienti Covid-19, e ogni 20 per i restanti: “Queste precauzioni hanno permesso di essere un po’ più sicuri che i nostri operatori non abbiano trasmesso la malattia ai pazienti”, ha commentato Donato, direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera di Padova, “Non abbiamo avuto focolai negli ospedali, almeno fino ad adesso”. Una grande mano nel contenimento dell’epidemia è stato anche grazie alla presenza della sanità territoriale, diversa da quella Lombarda che – abbracciando più largamente la tendenza occidentale contemporanea – accorpa in grandi strutture servizi d’eccellenza e cure specialistiche, cosa che ha influenzato sì anche il Veneto, che ha però tenuto un maggiore equilibrio tra offerta degli ospedali e quella “del territorio”: “Il Veneto ha servizi territoriali diffusi, ha presidi territoriali, sistemi epidemici regionali, una rete informatica per i medici di base e i direttori generali dei centri di Igiene Pubblica delle ASL“, ha spiegato al Post Palù, “Ha una sanità pubblica al 95 per cento e ha affrontato questo problema dal punto di vista della salute pubblica e non come problema clinico assistenziale”. Dose rincarata da Crisanti, che ha concluso: “Quando un evento del genere coglie un sistema sanitario il modo in cui è organizzato influenza moltissimo la risposta: in Lombardia tutto è basato sull’eccellenza di terapie e sulla ospedalizzazione, sulle diagnosi avanzate, ed è molto privatizzato. Questo sistema peraltro lo abbiamo voluto, e ne eravamo tutti orgogliosi. Ma aveva trascurato la medicina sul territorio e in un’epidemia queste cose si vedono. Solo che un’epidemia non era mai capitata, finora”.

Una riflessione sui medici

“Non è stato il paese dei balocchi”, ha commentato Domenico Crisarà, rappresentante della sezione regionale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, secondo il quale anche i medici veneti hanno avuto difficoltà nel fare tamponi ai propri pazienti sospetti, con la differenza che “i colleghi lombardi sono stati lasciati a sé stessi, mentre in Veneto siamo stati coinvolti fin dal primo momento”. Medici maltrattati un po’ ovunque, cosa che pone una riflessione dunque sulle azioni future che dovranno interessare il territorio nazionale al completo, oltre che quello regionale. Un diverso rapporto tra medici di famiglia e le Asl venete (le ULSS) storicamente efficiente, con i medici stessi che hanno canali di comunicazione con i singoli distretti sociosanitari, ovvero quella che in gergo viene chiamata “continuità assistenziale” tra ospedale e territorio, cioè tra il sistema che si occupa del paziente in tutte le fasi fuori dall’ospedale, che – nel caso Veneto – è regolata da una Centrale Operativa Territoriale in seno a ogni ULSS, e che nell’emergenza ha messo a disposizione delle mail a cui i medici potevano richiedere il tampone. “Se si riteneva che un tampone dovesse essere fatto, avevamo i canali per chiederlo anche senza seguire le vie burocratiche. Questo lavoro, insieme alla fiducia che ci accordano i pazienti, ha consentito di tenere a casa la gente senza mandarla in ospedale”, ha concluso Crisarà.