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In Italia, il tema delle “baby pensioni” continua a suscitare interesse e riflessioni. Stando ai dati, nel 2023 l’Italia avrebbe complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 583,7 miliardi di euro, con un incremento pari al 4,3% rispetto all’anno precedente. Il totale speso per le prestazioni previdenziali vale il 12,55% del Pil, con un valore stabile in linea con la media europea e un ammontare di 267,1 miliardi di euro. Invece, il capitolo assistenziale “continua a gravare fortemente” sul bilancio del welfare italiano: nel 2023 vi sono 164,4 miliardi a carico della fiscalità generale, con una spesa che si stima sia crescita tre volte più rapidamente di quella per pensioni dal 2008. Questo è il panorama che emerge dal dodicesimo rapporto sul Bilancio del sistema previdenziale italiano curato dal Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali.
Il report sul Bilancio del sistema previdenziale italiano
Il rapporto analizza, tra le altre cose, una serie storica delle pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti (IVS) ancora in pagamento al 1° gennaio 2024, partendo da quelle con decorrenza antecedente al 1980, classificate per singolo anno fino a quelle che decorrono dal 2023, permettendo di calcolare la durata delle pensioni ancora in pagamento dalla loro decorrenza a inizio 2024. Il report spiega che “affinché il sistema resti in equilibrio è necessario anche un giusto rapporto tra il periodo della vita lavorativa e la durata della pensione per evitare di penalizzare i lavoratori che oggi con i loro contributi (contributivi in testa) consentono il pagamento delle pensioni all’attuale generazione di pensionati”.
Le considerazioni emerse dal report
Come chiarificato dal rapporto, “se non si aggancia l’età di pensione alla speranza di vita, sospesa negli ultimi 6 anni e si eccede nelle anticipazioni, i rischi sono quelli che la durata delle prestazioni sia sproporzionata rispetto alla durata della vita contributiva, come emerge chiaramente dall’analisi che evidenzia durate ultra quarantennali di pensioni sorte molti anni fa per esigenze spesso elettorali, come le pensioni di invalidità con decorrenza fino al 1 luglio 1984, ancora oggi in pagamento con durate ultra quarantennali (c.d. invalidità ante legge n. 222/1984 che le ha bloccate); schiere di lavoratori mandati in quiescenza in età giovani in seguito a norme che tra il 1965 e il 1990 hanno permesso a lavoratrici statali sposate con figli di andare in pensione dopo 14 anni 6 mesi e 1 giorno di servizio utile, compresi i riscatti di maternità e laurea (per es. una laureata con 2 figli poteva lavorare anche per soli 8 anni e poi pensionarsi a vita dopo aver versato pochi anni di contributi) e 19 anni 6 mesi e 1 giorno di lavoro per gli statali maschi; per i dipendenti degli enti locali il diritto a pensione scattava dopo 25 anni, consentendo così pensionamenti con 20-25 anni di contribuzione (sempre compresi il riscatto della laurea, la maternità o il militare)”.
Quanti sono i baby pensionati oggi
All’1 gennaio 2024 presso l’Inps per entrambi i settori privato e pubblico, sono in pagamento 280.684 pensioni previdenziali con durata da 43 anni e oltre, che formano l’1,7% del totale delle pensioni IVS vigenti, relative a uomini e donne oggi ultraottantenni andati in pensione nel 1980 o ancor prima. Tra queste, 245.008 sono prestazioni del settore privato, in gran parte pensioni di invalidità reversibili, con importi medi mensili di 647 euro per le pensioni dirette e 592 euro per quelle ai superstiti. Nel settore pubblico si registrano 35.676 pensioni con durata superiore a 43 anni, perlopiù a favore di donne (70,4%). Secondo i dati rilevati dagli Osservatori Statistici dell’Inps, l’età media alla decorrenza relative ai soggetti che si sono pensionati nel 1980 o nei precedenti anni sono il risultato della ponderazione delle età medie solo dei soggetti ancora oggi in vita, con anni di decorrenza del pensionamento diversi (classe durata 43 anni e oltre). Nel settore privato l’età media alla decorrenza dei pensionati che percepiscono la rendita da 43 anni e oltre, ancora viventi, era di 39,9 anni, mentre nel pubblico nel settore pubblico è di 39,2 anni. In relazione a queste basse età di pensionamento si deve evidenziare che i lavoratori andati in pensione 43 e più anni fa, di età più matura, sono nel frattempo deceduti e fanno più parte del calcolo dell’età media, che risulta ogni anno più bassa e ritrae le età medie possedute all’epoca del pensionamento. La durata delle pensioni più remote è mediamente di 47,9 anni e nel settore pubblico di 46,9 anni. Trattasi in prevalenza di pensioni di invalidità, superstiti e vecchiaia.
Sostenibilità e prospettive future
Con la ripresa dell’occupazione, anche se distante dai livelli europei, è in crescita il rapporto tra attivi e pensionati: nel 2023 si attesta a quota 1,4636, e si tratta del miglior valore della serie storica tracciata dal rapporto. Pertanto, si attesta che il sistema è sostenibile, “regge e continuerà a farlo, a patto di compiere, in un Paese che invecchia, scelte più oculate su politiche attive per il lavoro, anticipi ed età di pensionamento”. Innanzitutto, afferma il presidente Alberto Brambilla, “occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema”, tra cui “l’adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita”, ma non dei contributi per la pensione anticipata.