Ingegnere meccanico-energetico, Francesco Naso lavora da sempre su soluzioni per l’integrazione dei veicoli elettrici. Fondatore e da tre anni segretario generale dell’associazione Motus E che in Italia promuove la mobilità elettrica, è sicuramente l’uomo giusto a cui chiedere una fotografia dello stato attuale della transizione verso la mobilità elettrica nel nostro Paese. Lui, davanti alla domanda, sorride e allarga le braccia: «Siamo lenti, lentissimi, rispetto ad altri paesi, basti dire che attualmente in Italia abbiamo un’auto elettrica nuova su venti immatricolate. In Francia e Inghilterra, la proporzione è di un’auto su quattro. E non parliamo della Norvegia dove le auto elettriche circolanti, neanche quelle nuove, ormai hanno superato le auto circolanti a benzina. Vuol dire che il nostro Paese non sta valorizzando la mobilità elettrica, né dal punto di vista industriale né da quello economico».
Auto elettriche, intervista con Francesco Naso, Motus E
E qui, proprio sul punto dove casca l’asino, Naso aggiunge che «molte istituzioni tendono a chiudersi a riccio e questo può mettere a serio rischio la nostra capacità di attrarre investimenti e di comunicare alle imprese le opportunità di investimento nel settore». Settore che in realtà, a sentire Naso, è proprio quello dove l’automotive, a livello globale, sta mettendo il turbo. Come testimoniano i dati, quest’anno la produzione e vendita di veicoli in Cina ha raggiunto le 9,5 milioni di unità circa, trascinando il mercato mondiale dei mezzi completamente elettrici e ibridi plug-in a un +13% sul 2023. Tutto questo, mentre da noi, chiosa il segretario generale di Motus E, «l’ecosistema della mobilità e dell’industria italiana continua ad essere impaurito da questa trasformazione».
Cioè vuoi dire che gli operatori stanno tutti alla finestra?
«In realtà ci sono tante imprese che noi rappresentiamo come Motus E che ci stanno puntando, ci investono tanti soldi, tanta energia e tanta intelligenza. Credo che sia nostro compito trovare il modo di contagiare positivamente tutte le altre aziende. Oggi la trasformazione spaventa perché viene descritta come fulminea, ma in realtà è un processo estremamente graduale. Quand’anche nel 2035 dovesse essere confermato il phase-out dei combustibili fossili nelle auto, fino al 2050 continueranno a girare milioni e milioni di autovetture a motore termico. Nessuno subirà il furto della propria auto a benzina dentro casa, da parte dello Stato! Qui si tratta di direzionare l’industria europea verso un percorso che è di sicura decarbonizzazione. Spesso sento dire che “non è sicuro”. E invece è più che sicuro, è certo. Già oggi grazie all’auto elettrica riduciamo al 70% le emissioni di CO2. Figurarsi con un sistema di generazione di energia decarbonizzata».
Su quali aspetti in particolare bisogna lavorare di più?
«Innanzitutto, dobbiamo continuare a migliorare l’infrastruttura di ricarica. In Italia, attualmente abbiamo una proporzione di uno a dieci, ossia un distributore ogni dieci veicoli elettrici immatricolati. Quindi non regge più neanche la scusa “non riesco a ricaricare abbastanza per avere autonomia alla guida”. Tuttavia, ci sono ancora aree, soprattutto in alcune città, che non sono ben servite e quindi attrezzarle. E poi è fondamentale spiegare che questa transizione non è spaventosa; bisogna far provare i veicoli elettrici e dimostrare i loro vantaggi in termini di prestazioni e riduzione del rumore. È una tecnologia nuova che ci permette di avere una differente sensazione alla guida».
E gli incentivi? Potrebbero essere la via più diretta per accelerare la transizione?
«Aumentare gli incentivi non basta. Il punto è come vengono dati gli incentivi. Negli ultimi quattro anni, il sistema incentivante è cambiato quattro volte. E siamo l’unico paese in Europa che continua a dare incentivi per auto a motore endotermico che si venderebbero comunque. Gli incentivi dovrebbero servire a far adottare nuove tecnologie, non a sostenere auto già consolidate sul mercato. Attualmente, le immatricolazioni sono ancora bloccate a 300.000 unità in meno rispetto ai livelli pre-pandemia, mentre altri paesi stanno recuperando».
E sul piano culturale? Come bisognerebbe muoversi?
«Dobbiamo comunicare che la transizione non avviene dall’oggi al domani e che non ci si deve sentire costretti a farlo. È un cambiamento culturale importante, e dobbiamo far capire che l’adozione di tecnologie nuove come l’auto elettrica è vantaggiosa e non deve essere vista come una minaccia».
Il dibattito continua ad essere polarizzato, invece. Il Green Deal da molti viene visto come una minaccia all’economia tradizionale e resta un tema divisivo. Soprattutto nel settore dell’automotive. Ma è possibile coniugare l’interesse dell’industria con la salvaguardia dell’ambiente?
«Si può e si deve fare. L’industria dell’auto italiana non era in ottima salute nemmeno prima dell’arrivo delle auto elettriche. Abbiamo analizzato la filiera e scoperto che solo il 4% delle aziende è completamente concentrato sul motore endotermico; la maggior parte è già pronta per la transizione. È cruciale, a questo punto, supportare le imprese nel cambiamento. Altri paesi, come Cina e Stati Uniti, hanno implementato piani industriali efficaci; l’Europa, invece, fatica a farlo. Abbiamo bisogno di un piano industriale e di investimenti per accompagnare le imprese in questo processo».
La nuova Commissione Ue voluta dalla riconfermata Presidente Von der Leyen, sulla carta sembra molto meno agguerrita sui temi ambientali rispetto a quella di 5 anni fa. Dici che è un cambio di rotta vero e proprio?
«Non sono sicuro che ci sia una direzione chiara. E invece sarebbe fondamentale che l’industria avesse accesso a piani industriali e fondi comunitari, perchè ogni paese non può agire in modo isolato. Senza una strategia ben definita, rischiamo di perdere terreno nella produzione di componenti fondamentali per la mobilità elettrica».