Milano, 15 feb.
(Adnkronos Salute) – Cosa fare di fronte a un paziente che manifesta i primi segni di deficit cognitivo? Sarà un inizio di Alzheimer? O di altre demenze? Una bussola utile a orientarsi nel labirinto della diagnosi arriva dalle prime linee guida europee per l'identificazione precoce dei disturbi neurocognitivi, pubblicate su 'The Lancet Neurology' e coordinate da esperti dell'università di Genova – Irccs ospedale Policlinico San Martino, dell'università di Ginevra in Svizzera e dell'Irccs Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia.
Le raccomandazioni rappresentano una svolta nell'approccio diagnostico, focalizzandosi non sulla malattia, bensì sul paziente e i suoi sintomi. Una strategia che potrebbe ridurre anche del 70% gli esami strumentali inutili, permettendo valutazioni tempestive, precise, affidabili e abbattendo al contempo i costi per il Servizio sanitario nazionale.
Lo studio che ha portato a queste linee guida è il frutto del lavoro di 22 esperti internazionali afferenti alle 11 principali società scientifiche europee nel campo della neurologia, della psicogeriatria, della radiologia e della medicina nucleare.
Nell'arco di circa 3 anni, con la supervisione di 6 ulteriori specialisti riconosciuti a livello internazionale e con il supporto di un rappresentante dell'associazione pazienti e familiari Alzheimer Europe, sono state condivise e approvate raccomandazioni sui percorsi diagnostici da intraprendere in persone con segni di pre-demenza o demenza iniziale, basate sulla letteratura scientifica e sull'esperienza clinica dei professionisti coinvolti.
Dopo la valutazione clinica iniziale, che è il punto di partenza essenziale, l'iter prevede altri 3 passaggi, descrive una nota.
Il primo: "Attraverso l'analisi clinica dei sintomi, i test cognitivi, l'esame di alcuni parametri nel sangue (come vitamina B12 e folati), una risonanza magnetica o Tac e, in alcuni casi, l'uso dell'elettroencefalogramma, ciascun paziente viene riferito a una tra 11 diverse modalità di presentazione dei sintomi (per esempio, preminente disturbo di memoria, di linguaggio, delle funzioni esecutive, con o senza altri segni neurologici)". Secondo step: "Per ciascuno degli 11 profili si procede secondo iter differenti che prevedono, a seconda dei casi, esami come Pet, Spect o esame del liquido cerebrospinale per la valutazione della presenza di marcatori come le proteine tau e beta-amiloide".
Terzo: "Sulla base dei risultati del secondo step, nei casi in cui persista il dubbio diagnostico si individuano ulteriori test come la scintigrafia o specifiche tipologie di Pet o di esame del liquor". In futuro, prospettano gli esperti, a queste analisi "sarà verosimilmente possibile associare anche l'ultilizzo di biomarcatori rilevabili nel sangue".
"Queste raccomandazioni nascono dall'esigenza di avere indicazioni condivise, internazionali e ben documentate, ma soprattutto centrate sulla presentazione clinica dei sintomi, sul paziente anziché sulla malattia – afferma Flavio Nobili, co-coordinatore dello studio e professore di Neurologia all'università di Genova – Irccs ospedale Policlinico San Martino – Il paziente con un deficit cognitivo iniziale ha circa il 50% di probabilità di avere l'Alzheimer oppure un'altra delle varie patologie che causano disturbi neurocognitivi.
Per districarsi fra le tante cause e arrivare a una diagnosi, oltre ai test cognitivi oggi esistono molti esami strumentali, dalla Tac, alla risonanza magnetica, all'esame del liquor. Per ciascuna metodica esistono linee guida e ambiti di applicazione a seconda delle diverse malattie, ma quando il neurologo ha di fronte per la prima volta il paziente non sa ancora di che patologia soffra e quindi è difficile riferirsi a linee guida pensate per individuare l'una o l'altra malattia.
Ecco perché serviva costruire raccomandazioni basate principalmente sul sintomo e non sulla patologia".
"Queste raccomandazioni – aggiunge Federico Massa, coautore dello studio e ricercatore all'università di Genova – Irccs ospedale Policlinico San Martino – aiutano a generare un'ipotesi di probabilità di malattia e a sottoporre dunque il paziente a un flusso logico di esami, scegliendo fra i tanti a disposizione quelli più adeguati e decidendo poi, in base ai risultati, se fermarsi o proseguire con ulteriori test, fino a che non si sia raggiunta una diagnosi con ragionevole certezza.
Seguire un unico percorso diagnostico uguale per tutti può essere inefficace, impreciso e dispendioso. Fare tutti gli esami disponibili a tutti i pazienti non è solo insostenibile dal punto di vista economico per il sistema sanitario, ma va anche contro la salvaguardia del paziente che così verrebbe esposto a eccesso di radiazioni e a tutti i rischi connessi a ciascuna procedura. Le malattie che si presentano con deficit cognitivi sono decine, anche se l'Alzheimer è la causa più frequente: avere una traccia per muoversi verso la diagnosi giusta in maniera rapida ed economica è fondamentale".
Le raccomandazioni pubblicate "dovranno essere periodicamente aggiornate in base ai progressi scientifici", puntualizzano gli autori. "Sono consigliate per gli individui al di sotto dei 70 anni seguiti nei Centri per i disturbi cognitivi e le demenze, e da valutare caso per caso per i pazienti con più di 70 anni. Nel prossimo futuro si spera che possano essere integrate con l'impiego dell'analisi di specifici biomarcatori nel sangue, a oggi disponibili solo per la ricerca scientifica e in fase di approvazione per l'uso clinico".
"Grazie a queste raccomandazioni – conclude Giovanni Frisoni, coordinatore dello studio, direttore del Centro della memoria e professore di Neurologia agli ospedali universitari e all'università di Ginevra – le persone con disturbi della memoria avranno una diagnosi armonizzata e di alta qualità in ogni centro d'Europa. Le raccomandazioni che abbiamo sviluppato potranno inoltre essere a breve aggiornate per l'utilizzo dei marcatori di Alzheimer nel sangue di cui, da qui a poco, potrà essere fatto uso clinico.
Tutto ciò permetterà di intercettare i pazienti con malattia di Alzheimer nel momento più adatto e, in un futuro non troppo lontano, di indirizzarli alla terapia con gli anticorpi monoclonali che speriamo arriveranno presto in Europa. Questi farmaci, se somministrati nei pazienti giusti in una fase iniziale della malattia, potranno infatti ritardare la perdita della memoria".